Forse, quando nel settembre 2012 all’ultimo seminario di Altradimora su Storia delle donne/storia di donne abbiamo deciso che l’appuntamento del 2013 sarebbe stato sulla politica eravamo, al solito, preveggenti, ma credo che una situazione così complessa, difficile e a tratti inquietante, almeno per alcune di noi, non era attesa.
Riporto di seguito alcuni brani di un articolo di Ilvio Diamanti, che mi ha colpito perché, nelle pieghe della mutazione antropologica, sociale e politica nella quale siamo immerse, penso sia molto importante lo spostamenti del linguaggio e quindi della comunicazione che inevitabilmente in-forma anche i contenuti.
“I politici della Prima Repubblica. Erano incomprensibili. Il linguaggio era fatto apposta per non essere compreso. Se non da loro. Al loro interno. Messaggi cifrati. Obliqui. Paralleli. I cittadini, d'altronde, non se ne occupavano troppo. I discorsi politici e dei politici: non li interessavano. Tuttavia, la società non era estranea al contesto politico. "Con-testo", appunto. Un "testo" condiviso. Perché la politica è rappresentanza e rappresentazione. I "rappresentanti" riflettono la società e la società vi si riflette. Almeno in parte. E il linguaggio ne era lo specchio. Così, le persone parlavano in modo "educato". In pubblico. Le parolacce non erano ammesse. Quando scappavano, il responsabile veniva guardato con un sorriso tirato, di riprovazione. Sui giornali e sui media, poi, guai. Quel "Cazzo!", pronunciato sapientemente da Zavattini, nel 1976, fece rumore. Anzi, fragore. Mentre quando Benigni in tv, ospite della Carrà, recitò tutti i sinonimi della "passerottina" (dalla chitarrina alla vulva...), sollevò grandi risate, ma molto meno clamore. Era il 1991. Il muro di Berlino era caduto. E stava travolgendo anche il sistema politico italiano. Seppellendo, insieme alla Prima Repubblica, una civiltà formalista e un po' ipocrita. Dove il distacco tra società e politica era riprodotto dall'impossibilità di comprendere quel che avveniva "in alto". I politici non erano apprezzati né, tanto meno, stimati. Anche prima di Tangentopoli. Venivano considerati disonesti. Inattendibili. Disinteressati ai problemi della "gente comune". Eppure non ci si faceva troppo caso. Tutti votavano sempre. Allo stesso modo..
…….Oggi, anzi, da almeno vent'anni: la scena è cambiata. I politici sono impopolari come prima, più di prima. Ma nessuno si fa scrupolo a dirlo. Neppure i politici. I quali si fanno schifo e se lo dichiarano reciprocamente. Non c'è nessuno, d'altronde, che sia disposto ad ammetterlo. Di essere un politico. Neppure i dirigenti di partito, i parlamentari, i senatori. Tutti im-politici. Il vetro che separava i politici dalla società e la società dai politici: si è rotto. Certamente, almeno, dal punto di vista della comunicazione e del linguaggio. L'alto e il basso. Chi sta in alto, i rappresentanti, insegue chi sta in basso, i rappresentati. E scende più in basso possibile. Tutti leader e tutti follower. Gli "eletti" fingono di essere come il "popolo". Per imitare il "volgo" cercano di essere "volgari". E ci riescono perfettamente. Senza fatica. Perché spesso sono peggio di loro. Nei comportamenti e nelle parole. Hanno trasformato il Parlamento e la scena politica in un luogo dove non esistono limiti né regole. Ai discorsi, al linguaggio.
Fra i rappresentanti e i rappresentati, è un gioco di specchi infinito. Così l'esibizione di chi "ce l'ha duro" si alterna al grido di "Forza gnocca". Mentre si sviluppano relazioni internazionali tra "Cavalieri arrapati" e "Culone inchiavabili". Di recente, infine, nelle piazze, nei palazzi e sui media echeggiano i "vaffanculo", ripetuti all'infinito. Da chi rifiuta di dialogare con i "morti-che-parlano-e-camminano". Con i "padri puttanieri della Patria". Che sono già morti. E, comunque, "devono morire". Il più presto possibile. Per cambiare davvero il Paese.
È il clima del tempo. Il linguaggio del tempo. (Ben riassunto nel Dizionario della Seconda Repubblica, scritto da Lorenzo Pregliasco e di prossima pubblicazione per gli Editori Riuniti). Contamina tutto e tutti. Anche gli artisti più gentili. Perfino lui, l'Artista a cui mi rivolgevo nei momenti più concitati. Quando vivevo "strani giorni". Mi rassicurava, sussurrando: "avrò cura di te". Anche lui, divenuto "politico", descrive il Parlamento come un luogo affollato di "troie disposte a tutto".
E, allora, perché resistere? Perché rivolgersi, ancora, agli altri in modo educato? Perché chiedere rispetto: tra genitori e figli, professori e studenti, autorità e cittadini, immigrati e residenti, vicini e lontani, amici, conoscenti e sconosciuti. Perché? E perché limitarsi alle parole e non passare alle vie di fatto? D'altra parte, la distanza è breve. Le parole sono fatti.”
Parto da queste considerazioni, fatte da un uomo, perché una delle difficoltà più grandi, a mio parere, che ha incontrato l’analisi sulla politica di molti gruppi e singole femministe è stata quella di parlare spesso una lingua lontana e criptica, e di sottovalutare che da oltre due decenni non era più chiara, nella realtà come nella percezione di essa, la differenza tra la politica e i partiti.
Personalmente me ne sono accorta con sgomento in due occasioni: negli anni in cui ho insegnato all’Università di Parma e quando facemmo il video Giovani femministe.
In entrambi i casi alla parola politica veniva attribuito un significato negativo da parte dei e delle giovani, sovrapposto fastidiosamente alla cattiva reputazione che stigmatizzava i partiti: come a dire che se affermavi di essere una attivista femminista e quindi facevi politica eri sospetta di stare portando acqua al mulino di qualche odioso partito.
Per questo non risultava neppure chiaro a chi non era nei gruppi e nei movimenti che la critica ai partiti e alla politica maschile non era una demolizione della politica nel suo senso originario.
Una delle parole, e dei concetti, maggiormente usate dal fraseggio femminista è stata estraneità:
un atteggiamento chiarissimo e puntuale, che però ha contribuito a isolare le femministe e le attiviste, facendo emergere da una parte soggettività femminili neutre (a destra ma anche a sinistra) e dall’altra spingendo l’onda che sembrava riemersa con Snoq, (dopo Usciamo dal silenzio e il ritorno in pista dell’Udi), nella risacca del trasversalismo, propugnando la sacrosante presenza femminile in ogni dove, ma senza dire quale segno di femminile e di politica femminile fosse necessario.
Rispetto ad altri paesi europei è sembrata impossibile anche solo da pensare e da ragionare la proposta di una lista solo di donne (e di femministe), anche senza configurarsi come un partito, o comunque rompendo la logica del legame stretto e necessitante con le strutture tradizionali: al grande incontro di Pestum, che poteva essere uno dei luoghi dove ragionarne, non è emerso molto su questo.
Ora, con l’imperare della antipolitica come sinonimo del rifiuto rabbioso non tanto dei partiti, ma della politica stessa come luogo dove si elaborano insieme le priorità, i bisogni e i desideri delle donne e degli uomini che abitano e danno corpo alla cittadinanza, l’emergenza è quella di ritrovare senso.
Intanto di tornare a fare e a dire della politica come politica delle donne.
Trovare ponti verso le donne, anche più giovani ma non solo, che oggi sono dentro alla politica (nei movimenti come nelle istituzioni) ma che non hanno la percezione dell’importanza della differenza di genere, e sono formidabili portatrici d’acqua nel mare della neutralità.
Ponti per arginare l’ennesima cancellazione non solo delle donne come corpi, ma come intelligenze e visioni lontane e antitetiche a quelle del patriarcato.
Ponti, iniziative e pratiche che formino, anche, le e i giovani alle priorità della politica: non solo, giustamente, diminuzioni di stipendio al parlamento, ma anche rinarrazione sistematica della storia dei diritti e delle analisi dei femminismi.
Né estranee, né cooptate, né indifferenti, né escluse dalla politica.
L’incontro di Altradimora vorrei che rimettesse al centro visioni, strumenti e progetti politici con ottica di genere che ci mettessero tutte in grado, chi da fuori chi da dentro le istituzioni, di non indebolire l’azione comune e di non cancellare, con il disconoscimento per ignoranza e incuria, la ricchezza prodotta da quattro generazioni di donne.
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